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Quando il volto sciolto

non fa più paura

Resoconto di un esperienza di trattamento

del trauma attraverso l’EMD

superare un trauma post tradimento vincere paura e fobia

Il presente articolo è stato pubblicato in versione estesa dalla Rivista “Psicologia Clinica & Psicoterapia Oggi”. Si tratta del resoconto sul workshop di approfondimento diretto nel 2009 dallo Psicologo e Psicote­rapeuta Roger M. Solomon. L’argo­mento principale dell’incontro era il trattamento del trauma attraverso una tecnica oggi molto diffusa: l’Eye Movement Desensibilization Reintegration (EMDR). Questa tecnica è nata a partire dalle osser­vazioni e dagli studi della Psicologa e Psicoterapeuta Francine Shapiro (1995) che, sperimentando gli effet­ti di un certo movimento ritmico degli occhi su di se e sui suoi pazienti, scoprì come questi contribuivano a riorganizzare i ricordi e a riconnettere i pensieri alle emozioni provate nel momento in cui era stato vissuto un trauma. L’obiettivo dell’EMDR è quello di aiutare il pa­ziente a riorganizzare i ricordi vissuti come traumatici e di renderli non più angoscianti. Grazie alle numerose ricerche neuroscientifiche (Ma­xifield, 2003), è stato così possibile scoprire che l’applicazione dell’EMDR:

 

riconnette le strutture neurali della corteccia associati­va con quelle del sistema libico;

 

ha l’effetto di riorganizzare drasticamente la memoria di lavoro;

 

attiva il sistema parasimpatico riducendo l’arousal.

 

Anche se non si conosce ancora esattamente quale sia la relazione tra questi processi e l’effettiva rielaborazio­ne, sappiamo che essi si verificano in concomitanza alla reintegrazione del ricordo traumatico nel flusso costan­te dell’esperienza del paziente e alla conseguente rilet­tura delle credenze negative che la persona ha costrui­to a partire dall’evento. Oltre a fornire a noi partecipanti queste e molte altre in­formazioni sull’utilizzo dell’EMDR, durante il workshop Solomon ha portato numerosi esempi e casi clinici trat­ti dalla sua esperienza con le più importanti Istituzioni americane, con i vigili del fuoco statunitensi, con i soc­corritori coinvolti nel disastro dell’11 settembre e con i corpi speciali della Polizia Italiana. Attraverso modalità tipiche della cultura anglosassone, che fanno dell’esperienza in prima persona e dell’osser­vazione diretta i principali strumenti della formazione, Solomon ha arricchito di un valore aggiunto l’incontro, fornendo anche un modello di insegnamento alternati­vo rispetto a quello italiano, in cui la massima priorità viene data a tutto ciò che concerne la teoria e la specu­lazione concettuale.Nella convinzione che le emozioni siano il collante fondamentale delle nostre esperienze, nonché il tassello irrinunciabile dei processi di codifica delle nostre esperienze e dei ricordi, ho deciso di presentare il modello di intervento del Dr. Solomon a partire dalla raccolta dei fatti, dei pensieri e delle emo­zioni che ho vissuto in prima persona come volontaria per l’applicazione dell’EMDR. Questo anche nella con­vinzione che chi legge sia maggiormente interessato ad “ascoltare” una testimonianza diretta e che abbia la possibilità di approfondire l’aspetto più squisitamente teorico, attraverso pubblicazioni e manuali suggeriti in bibliografia.

 

1° Incontro:

Avviene alla fine della lezione ed ha come obiettivo quello di valutare se l’EMDR è un trattamento adeguato a me ed al tipo di trauma che ho subito, inoltre mi dà la possibilità di decidere se ritengo opportuno effettuare una seduta vera e propria l’indomani per permettere anche agli altri partecipanti di osservare l’applicazio­ne della tecnica. Roger raccoglie prima di tutto la mia anamnesi: fa delle domande sulla mia vita, sul mio la­voro e mi chiede, nello specifico, di raccontargli quale è stato l’avvenimento per il quale mi rivolgo a lui.Gli racconto un’esperienza che mi aveva molto turba­to: l’anno precedente, lavorando come operatrice per i Centri Antiviolenza della Capitale, mi era stato affidato un servizio di supporto presso l’abitazione di una don­na che era stata aggredita e sfigurata da un uomo con dell’acido1. Dal momento in cui avevo guardato il suo volto letteralmente “sciolto” avevo avuto molta paura, una paura che era sempre rimasta lì, congelata e che spesso aveva influito negativamente nella mia attività lavorativa presso il servizio nei mesi successivi.Insieme facciamo l’esercizio del “posto sicuro”, una vi­sualizzazione che permette di capire se il paziente è in grado di rimanere presente quando vengono rievocate le emozioni e le immagini legate all’evento traumatico: mentre seguo con lo sguardo li movimento ritmico del­le sue dita visualizzo il posto che per me simboleggia il riposo, la tranquillità, la sicurezza e mi concentro sulle sensazioni che questo posto mi dà.Subito dopo cominciamo la fase di assessment: iden­tifichiamo l’immagine precisa che mi aveva spaven­tata (che per me era il viso della donna nel momento esatto in cui si era voltata ed io l’avevo guardata per la prima volta) e le credenze negative che avevo costru­ito da quel momento in poi. Continuiamo a lavorare sull’immagine della donna attraverso i movimenti degli occhi, sulle credenze e sulle sensazioni corporee: via via l’immagine si fa più lontana, le sensazioni nel mio cor­po passano gradualmente dal caldo rovente al fresco. Alla fine della seduta perdo l’immagine ed ho una stra­na sensazione: la mia testa è “leggera” ma non confu­sa, come se si fosse liberata da un peso in eccesso. Con cordialità e calore io e Roger ci congediamo. Durante la notte ripenso a quella donna, ma non ho più quella for­te sensazione di paura: quella stessa immagine genera­va ancora ansia ed agitazione ma non più quel terrore disturbante.

 

2° Incontro:

Decido di effettuare un’altra seduta che questa volta av­verrà alla presenza del gruppo dei partecipanti. Roger effettua nuovamente la fase di l’assessment e mi chie­de di fissare l’immagine precisa del volto della donna. Mi rendo subito conto che le emozioni rievocate sono sempre riferite alla paura ed al timore ma sono molto meno intense e che si localizzano dietro la schiena. Ro­ger mi chiede di identificare il pensiero che lego a quel­la paura: “Può succedere anche a me”. Cominciamo da subito a lavorare su questo pensiero e lo ristrutturiamo in: “Io non sono sicura”. Ripensando oggi a quella frase, mi appare più chiaro come alla base della mia paura ci fosse una mia forte identificazione con la donna sfigu­rata.Procediamo con la fase di Desensibilizzazione: mentre seguo con lo sguardo le dita di Roger le emozioni si le­gano strettamente al filo dei miei pensieri e l’immagine di quel volto sfigurato perde gradualmente di temibili­tà. Sento la presenza del terapeuta molto forte ed an­che il gruppo dei compagni che osservano mi fornisce un’ulteriore sensazione di contenimento e supporto.Roger non interviene verbalmente e tra la stimolazione bilaterale ed il momento in cui vi associo pensieri ed emozioni, lascia che sia io ad attribuire nuovi significati all’evento. E’ la fase dell’istallazione: attraverso l’aumen­to dell’epinefrina e la diminuzione della serotonina i movimenti oculari stanno favorendo il funzionamento dell’ippocampo nel sistema libico e la riconnessione dei circuiti tra quest’ultimo e la corteccia associativa.Questa volta riesco a mantenere l’immagine della don­na per tutta la seduta e a conclusione la paura è ormai scemata, lasciando il posto ad un grande senso di rilas­satezza e stabilità. I pensieri che produco ordinatamen­te a partire dalla fase iniziale fino a conclusione sono:Io non sono sicura,Posso evitare che mi succeda,Quella persona non sono io,Ho scritto questa esperienza in un quaderno e l’ho mes­so via,Io sono sicura per quella che sono.Arriviamo così alla fase di scansione corporea: alle sen­sazioni di caldo si susseguono quelle di fresco, così come era stato nella fase di assessment e mi rendo conto di essere contemporaneamente rilassata e molto presente a me stessa.Quando alla chiusura Roger mi chiede per l’ultima vol­ta di effettuare una valutazione mi accorgo che la paura è ormai notevolmente ridotta. A conclusione mi trovo ancora in uno stato di contem­poranea lucidità e forte contatto con le mie emozioni, la sensazione di “mente leggera” è questa volta maggior­mente identificabile: è come se avessi messo ordine nella mia mente, come se quello che prima la occupava disordinatamente avesse trovato il suo giusto posto. Le mie associazioni stanno proseguendo. Mentre collego in modo molto veloce e cosciente eventi ed emozioni legate all’esperienza con quella donna arrivo a ricor­dare di aver in dosso una collana e degli orecchini che non uso particolarmente spesso e che (coincidenza?!?) portavo il giorno in cui la vidi. In quel momento ebbi la sensazione distinta di aver superato quella paura: ciò che rimaneva era un grande senso di soddisfazione. Penso oggi di aver sperimentato coscientemente l’essenza stessa della dissociazione: un funzionamento in cui il rapporto tra pensato e sentito è mutuamente esclusivo, in cui le emozioni si spengono automaticamente alla presenza della razionalità e quest’ultima non può connettersi ai contenuti del cuore.Le riflessioni nate dall’incontro formativo/terapeutico con Solomon sono state numerose ed hanno avuto la funzione di chiudere dei vecchi interrogativi per aprir­ne dei nuovi.Come paziente/psicologa, mi sono portata a casa una visione del mondo, meno minacciosa e più strettamen­te connessa ad un rapporto di proporzionalità rispetto alla percezione delle mie risorse. Quando l’ambiente esterno viene ridimensionato su tali parametri, la per­sona acquisisce una visione più consapevole dei propri limiti e delle proprie capacità nel momento attuale. Così può consolidare il proprio locus of controll interno (Bandura, 1977) mentre, in un processo circolare, la vi­sione del Mondo assume maggiore prevedibilità. E’ anche possibile ipotizzare come, oltre a consolidare il maggior senso di sicurezza in se stessi, il superamento di un trauma dia la possibilità di apprendere il processo attraverso il quale quest’ultimo è stato superato e di ri­metterlo in atto quando un’altra situazione traumatica si ripresenta. Rispetto a questo, sarebbe interessante verificare se tale ipotesi può essere supportata anche dallo studio dei meccanismi neurofisiologici su cui in­fluisce l’EMDR e scoprire se la riorganizzazione neurale provocata dai movimenti oculari in uno stato coscien­te, oltre a creare delle connessioni nuove, permette al nostro cervello di apprendere come crearle spontane­amente. Se così fosse potrebbe essere attribuito a questa tecni­ca anche un effetto preventivo rispetto alla formazione di nuovi traumi. Questa supposizione si riferisce alla mia esperienza personale. Infatti, pochi giorni dopo il workshop, trovandomi in una situazione per me po­tenzialmente traumatica, mi sono resa conto di come il maggior contatto con la paura nell’hic et nunc non solo non abbia compromesso la mia capacità di pensare, ma abbia anche impedito di sviluppare una nuova trauma­tizzazione. Venendo a delle riflessioni maggiormente legate al mio ruolo di terapeuta in formazione, penso che l’incontro abbia fornito numerosi spunti che riguardano: il for­te potere catalizzatore dell’EMDR nell’elaborazione dell’evento traumatico, gli effetti che l’utilizzo di que­sta tecnica può avere sulla relazione terapeutica e la conseguente responsabilità etica che tali aspetti pon­gono al clinico. L’EMDR è un’esperienza molto intensa per il paziente, che porta a sensazioni di ansia, smar­rimento e dolore talmente intenso da poter diventare disgregante. Il sistema terapeutico si confronta con la dissociazione, con la rievocazione di eventi in cui il paziente ha sperimentato il crollo totale di qualsiasi strategia cosciente di sopravvivenza: in questa situa­zione la qualità del rapporto tra terapeuta e paziente diventa più che mai preziosa. In alcune fasi il paziente sente forte il dolore, la propria fragilità ed è inoltre for­temente suggestionabile: questo da al clinico un forte potere d’influenza sul paziente e lo pone in una posizio­ne di grande responsabilità deontologica. Un terapeuta troppo “interventista” può rischiare di diventare mani­polativo, così come un terapeuta troppo “passivo” può rischiare di non far sentire il paziente abbastanza sicuro e protetto. Mentre combatte contro i suoi demoni, la possibilità di affidarsi al terapeuta è una risorsa irrinun­ciabile per il paziente; in tale situazione è quindi com­prensibile quanto forti siano i sentimenti di dipendenza del paziente. E’ così che il terapeuta assume, tra i tanti compiti, anche il dovere di monitorare continuamente l’andamento dell’equilibrio della relazione: questo de­terminerà, a mio avviso, il buon esito del trattamento, basandolo sullo sviluppo di una dipendenza che abbia funzione temporanea e maturativa piuttosto che re­gressiva. Avviandomi a concludere, un ultimo pensiero va all’esperienza terapeutica e all’importanza di sperimen­tare una tecnica come paziente prima di praticarla. Lo ritengo un atto di onestà intellettuale ed umana sentire, oltre che conoscere teoricamente e tecnicamente, cosa significa per il paziente confrontarsi con gli eventi, i vis­suti ed i pensieri che lo spaventano lungo. Per questo reputo il percorso terapeutico parte irrinunciabile del trainning per tutti noi che aspiriamo da intraprendere la professione di psicoterapeuta. A questo proposito, spesso mi pongo una domanda dall’apparente sapore retorico che giro volentieri al lettore come possi­bile spunto di riflessione: “Come si può portare qualcun altro per mare se non si è mai imparato a nuotare?”

 

Bibliografia:

Bandura, A. (1977). Self-efficacy: torward a unifing theory of behavioral change. Psychological Review, 84, pp. 191-215.

Maxfield, L. (2003). Clinical implications and recommendations arising from EMDR research findings, Journal of Trauma Practice, 2, 61-81.

Maxfield, L. Shapiro, F. & Kaslow, F. W. (2007). Handbook of EMDR and Family Therapy Processes. New York: Wiley.

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